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- Materie : : : Scienze Politiche

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1. Introduzione
Le Scienze Politiche, o comunque, la politica in se, è la materia che studia l'arte di governare lo Stato, sia interna che estera.
La teoria della politica è un ramo delle "scienze politiche" che si occupa della natura e della giustificazione dell'autorità e dell'azione politica. I pensatori che si muovono all'interno di questa prospettiva teorica hanno spesso privilegiato gli aspetti normativi dell'indagine, rispetto a quelli descrittivi.

2. La Città-Stato
Al centro della teoria della politica in età greca troviamo la teoria della città-stato, intesa come centro della vita sociale, individuale e politica. Uno dei primi pensatori a occuparsene in maniera sistematica fu Platone, che nella Repubblica ipotizzò una comunità politica giusta, gestita da filosofi interessati al bene comune quanto i cittadini, ma maggiormente capaci, rispetto a questi ultimi, di cogliere l'idea del bene e di fondare su di essa la prassi di governo. Secondo Platone gli strumenti che dovrebbero formare i governanti filosofi sono un regime di proprietà comunistico e uno specifico sistema di educazione. Aristotele è invece considerato il fondatore dell'analisi scientifica della teoria della politica. Nella sua Politica egli classificò le diverse forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia), esaminandone poi criticamente le attuazioni concrete e individuandone le degenerazioni, indicando nel contempo la polis come società perfetta. rx-med.net

3. La Repubblica
In età romana, allorché i re furono cacciati, la teoria della politica si incentrò sul ruolo della repubblica quale migliore forma di organizzazione politica di una comunità. Va a Cicerone il merito di aver definito in maniera chiara il concetto di repubblica, intesa "non come un qualunque aggregato di uomini, ma come un insieme di persone accomunate dal consenso dato alle leggi e da un comune interesse". In essa acquisivano un ruolo primario le virtù civiche, che si esprimevano nella partecipazione alla vita pubblica, e le virtù morali. Questo ideale risulterà fecondo fra il XVII e il XVIII secolo, diventando uno degli assi portanti della teoria politica anglosassone prima, francese e americana poi.

4. Stato e Chiesa
Nel Medioevo Tommaso d'Aquino cercò di conciliare la filosofia di Aristotele con i precetti del cristianesimo, legando all'idea della naturalità del corpo politico di matrice aristotelica quella dell'origine divina di ogni potere. Inoltre, la riflessione politica medievale si incentrò sulle opposte pretese egemoniche della Chiesa cattolica e del Sacro romano impero. Nel 1075 Gregorio VII formulò il principio secondo il quale al papa era "consentito deporre gli imperatori" e "sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà fatto ai sovrani", in virtù dell'autorità che Cristo aveva conferito ai suoi successori su tutti gli uomini, sovrani inclusi. Fra i più noti difensori della linea politica gregoriana vi fu Giovanni di Salisbury, che nel Policraticus (1159) teorizzò la legittimità dell'uccisione del tiranno. Sul versante opposto si collocarono le cosiddette tesi regaliste, secondo le quali all'imperatore e al papa spettavano sfere di competenza differenti, perché il primo doveva governare nella sfera temporale e il secondo in quella spirituale; uno dei più noti espositori della tesi fu Dante Alighieri. Successivamente si svilupparono le dottrine tese a limitare sia i poteri del papa sia quelli dei governanti temporali, rispettivamente le teorie conciliariste e quelle costituzionaliste. A partire dal Rinascimento, la preoccupazione per la preminenza della Chiesa nella vita civile passa in secondo piano o viene meno del tutto. In Machiavelli, ad esempio, la figura del principe identifica il primato dell'interesse dello Stato; più di un secolo più tardi, Thomas Hobbes rappresentò lo Stato come il solo freno possibile agli egoismi dei singoli.

5. Il contratto sociale e il liberalismo
Fra i secoli XVII e XVIII furono avanzate alcune dottrine che, pur nella profonda differenza d'ispirazione, risultarono accomunate dall'uso di due concetti fondamentali, attorno ai quali si imperniò gran parte della teoria politica del periodo: il contratto e i diritti naturali dell'uomo. In linea generale, si affermò che il potere politico traeva origine da un contratto fra individui, che lo istituivano per meglio garantire a se stessi determinati beni, quali la pace e la sicurezza della vita, come sostenne Hobbes, oppure la proprietà privata e la libertà, come affermò John Locke. Quest'ultimo, considerato il padre del liberalismo, accettò l'idea che il governo fosse fondato su un contratto sociale, ma sostenne che la sovranità restava nelle mani del popolo e che dunque il monarca, nell'esercizio delle sue funzioni, usufruiva semplicemente di un mandato. Il popolo poteva quindi ritirare la fiducia concessa al re ogni qualvolta lo avesse ritenuto opportuno, per conferire ad altri il medesimo potere. Il pensiero di Locke, unito alla ripresa della tradizione repubblicana, avvenuta in Inghilterra grazie agli scritti di John Milton e James Harrington, ispirarono la Dichiarazione d'indipendenza americana.
Nel frattempo, le lotte imbastite dai Parlamenti francesi contro le pretese assolutistiche del potere sovrano stimolarono prima la composizione dello Spirito delle leggi, opera costituzionalista di Montesquieu nella quale veniva auspicato il principio della separazione dei poteri, e poi una serie di testi di ispirazione democratica e repubblicana, culminati con il Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau. Questi, servendosi delle idee di contratto e diritti naturali, riconosceva che il popolo era il detentore della sovranità, e senza mezzi termini lo metteva in guardia sui rischi che poteva comportare il delegare ad altri tale potere. Chiari echi di queste dottrine giusnaturalistiche e contrattualistiche ricompariranno nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, posta a capo della Costituzione votata in Francia nel 1791.

6. L'Ottocento
Dal punto di vista della teoria della politica il secolo XIX appare un periodo ricco di contributi teorici. Fra i principali è da ricordare l'approfondimento delle intuizioni liberali dei pensatori settecenteschi imperniate sui concetti di diritti e libertà individuali, intesi come un patrimonio da salvaguardare contro le inevitabili ingerenze dello stato. Questa linea di pensiero è legata essenzialmente agli apporti della filosofia anglosassone e, segnatamente, agli scritti di John Stuart Mill.
Va inoltre menzionata la profonda influenza esercitata dalla riflessione di Karl Marx, che, riprendendo la dialettica hegeliana e basando l'analisi sulla concezione materialistica della storia, articolò una critica serrata alle ideologie liberali, considerate strumenti al servizio del sistema capitalistico. Teorico dell'abolizione della proprietà, egli predisse la fine del capitalismo sulla base di leggi insite nella logica del mercato, auspicando l'avvento di una società comunista ed egualitaria.
Sempre nel corso dell'Ottocento prendono forma compiuta le prime teorizzazioni di stampo anarchico, nelle quali viene propugnata l'idea di una società capace di autoregolamentarsi e dunque priva di ogni potere politico, fondamentalmente autoritario, dannoso e inutile. Tale ambito di riflessione si è prevalentemente sviluppato in Europa grazie all'opera di Pierre-Joseph Proudhon e di Michail Aleksandrovič Bakunin.

7. Il totalitarismo e il Novecento
Nel Novecento la teoria della politica ha trovato nelle ideologie, nelle forme, nelle cause e negli effetti dei totalitarismi uno degli ambiti di ricerca più vasti. Alle esperienze totalitarie create in nome del marxismo, del nazionalsocialismo e del fascismo sono da ricondurre una molteplicità di apporti e di riflessioni critiche. Queste hanno stimolato ricerche importanti come le Origini del totalitarismo (1951) di Hannah Arendt, nonché una revisione del contributo di molti pensatori ritenuti in qualche modo precursori dell'ideologia totalitaria, fra i quali ad esempio è stato annoverato Rousseau. Ma al di là di questo ambito di ricerca, la teoria della politica novecentesca si è caratterizzata per una grande apertura verso i contributi provenienti da discipline quali l'economia (ne è un esempio la scuola austriaca legata al nome di Friedrich von Hayek) e la sociologia (si pensi all'importante opera di Max Weber). Infine vi è stata una ripresa del dibattito sulle tradizioni repubblicana, contrattualistica e costituzionalista a cui sono rispettivamente legati in nomi di Quentin Skinner, John Rawls e Jürgen Habermas. Per quanto concerne l'Italia si è distinto per i suoi numerosi contributi in molte aree della teoria della politica il filosofo Norberto Bobbio.

8. Politica economica
Insieme di misure adottate dai poteri pubblici al fine di regolare l'andamento dell’economia di un paese. Le misure riguardanti l'economia nel suo complesso fanno parte della macroeconomia, mentre quelle che agiscono in ambiti specifici, ad esempio in agricoltura, rappresentano elementi di microeconomia.

Obiettivi della Politica Economica
Le politiche macroeconomiche sono talmente varie e numerose da rendere impossibile una trattazione succinta: possono interessare un settore produttivo oppure ambiti più ampi. Possono riguardare, ad esempio, la nazionalizzazione o la privatizzazione di un settore, il mercato del lavoro, la produzione e la vendita di certi prodotti come ad esempio la benzina o l’energia elettrica, le transazioni finanziarie di vario genere. Alcune di queste misure di intervento hanno lo scopo di regolamentare certe attività, mentre altre svolgono funzioni di stimolo. Nel loro complesso, le politiche microeconomiche rappresentano il quadro legislativo all'interno del quale operano le forze di mercato e senza il quale la concorrenza non potrebbe più essere equa né socialmente vantaggiosa.
Gli obiettivi della politica macroeconomica variano a seconda del sistema economico e del quadro giuridico e istituzionale di un paese. Sull'ampiezza che dovrebbe assumere l'intervento dello stato nell'economia, esistono notevoli divergenze fra gli economisti: alcuni hanno fiducia nel funzionamento del mercato e sottolineano le inefficienze generate dall'intervento dello stato. Altri, invece, ritengono che la politica economica rappresenti uno strumento in grado di attenuare le fluttuazioni dell'attività economica, di ridurre la disoccupazione, di promuovere la crescita economica, di limitare i poteri di monopolio delle imprese, di attuare una più equa distribuzione del reddito.

Misure di Politica Economica
Gli interventi di politica economica possono produrre effetti negativi se non sono basati su un'analisi corretta delle forze economiche in campo. Ad esempio, una efficace politica occupazionale deve poggiare su una visione d'insieme delle cause della disoccupazione, così come le misure volte a ridurre l'inflazione devono tener conto dei fattori che la provocano.
Particolarmente importanti risultano essere le politiche dal lato della domanda, che, agendo sul livello del potere d'acquisto, cercano di regolare la pressione sulle risorse di un paese. Si tratta generalmente di interventi di politica monetaria e di politica fiscale. Le misure di politica monetaria possono determinare rialzi o ribassi dei tassi di interesse, spingendo le banche a limitare la concessione di prestiti nel primo caso o a praticare tassi più vantaggiosi nel secondo.
Con la politica fiscale, lo stato può variare il livello della tassazione oppure modificare il sistema fiscale cercando di incoraggiare o scoraggiare i consumi o gli investimenti. Sempre nel tentativo di agire sulla domanda aggregata, lo stato può modificare il livello della spesa pubblica oppure intervenire direttamente attraverso il razionamento dei beni o l'imposizione di limiti al consumo.
Lo stato può regolamentare l'attività produttiva anche attraverso l'emanazione di leggi, tra cui quelle relative al rapporto di lavoro e agli accordi tra imprese.
In tempo di guerra, o in un'economia pianificata, l'intervento dello stato assume dimensioni maggiori: le misure di politica economica sono tese alla programmazione centralizzata delle attività economiche e limitano la libertà individuale di produttori e consumatori di esprimere le proprie preferenze sul mercato dei beni e dei servizi.
A partire dalla metà degli anni Settanta, le misure di politica macroeconomica si sono modificate in maniera radicale di fronte a una crescente riluttanza nel conferire allo stato ampi poteri e a un maggiore scetticismo circa la capacità dello stesso di gestire l'economia in maniera efficiente. Maggiore enfasi viene invece posta sulle politiche dal lato dell'offerta, che sono finalizzate allo sviluppo di una maggiore concorrenza, all'erogazione di incentivi alle imprese, all'attrazione di capitali stranieri e, soprattutto, al miglioramento del livello di istruzione e di qualifica professionale della forza lavoro.

Accordi Internazionali
La crescente integrazione delle economie a livello mondiale e la maggiore mobilità dei capitali impongono vincoli alle politiche dei singoli paesi, che devono adeguare le politiche economiche nazionali a norme e accordi stabiliti da organismi internazionali come l'Unione Europea (UE), l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale per il commercio (WTO, World Trade Organization).

9. Politica fiscale
Insieme di misure adottate dal governo in materia di imposizione fiscale e di spesa pubblica. La politica fiscale viene definita espansiva quando il governo, al fine di stimolare la domanda aggregata, riduce la tassazione oppure stimola la spesa pubblica. Una politica fiscale restrittiva è, invece, caratterizzata da una contrazione della spesa pubblica oppure da un incremento della pressione fiscale. La politica fiscale e quella monetaria (che riguarda l'offerta di moneta), rappresentano i principali strumenti macroeconomici, con i quali il governo è in grado di intervenire sull'andamento generale della propria economia.
Nell'attuare la propria politica fiscale il governo può seguire varie vie: applicare imposte dirette (ad esempio, l'imposta sul reddito), oppure imposte indirette (ad esempio, l'imposta sulle vendite o imposta sul valore aggiunto); intervenire sulle voci di spesa corrente, tra cui i salari dei dipendenti pubblici, oppure sugli investimenti (ad esempio, in ospedali e strade).
Poiché spesso le uscite complessive risultano inferiori alle entrate, il bilancio pubblico dà luogo a un disavanzo e, di conseguenza, a un fabbisogno finanziario del settore pubblico, che deve essere coperto mediante emissione di moneta o di titoli. Nel primo caso si corre il rischio di un incremento dell'inflazione, mentre nel secondo potrebbe verificarsi un aumento dei tassi di interesse.
Nel compiere le proprie scelte in materia fiscale, i governi vengono inevitabilmente influenzati da considerazioni di ordine politico e cercano di tenere conto delle possibili reazioni dell'opinione pubblica di fronte a particolari tipi di intervento. In molti paesi una riduzione delle risorse investite nel servizio sanitario nazionale provocherebbe ad esempio maggiori critiche rispetto a un taglio della spesa relativa alla costruzione di strade.
Nell'ambito di un'economia mondiale sempre più aperta e integrata, i singoli governi devono anche tenere conto della politica fiscale attuata dai propri partner internazionali.



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